La prima cosa che ho ricercato quando ho iniziato ad andare in montagna è stato il selvaggio: più un luogo è distante dalla civiltà, più mi attrae. L’ignoto può essere terrificante ma è anche irresistibile allo stesso tempo e anche l’arrampicata non è altro che una continua ricerca dell’ignoto, tarata su una scala più piccola, quella della parete che ti si para di fronte al naso mentre sei lì, alla ricerca del costante movimento. Ero stato in Valle di San Lucano solo una volta, rimanendo folgorato dalla sua sconcertante dimensione verticale che ti schiaccia con forza. Fin da subito avevo percepito l’odore di selvatico. E il gran diedro Casarotto-Radin era lì, un obiettivo, un sogno. Cagia è il compagno giusto e con noi si aggrega anche quella macchina da guerra che è il Capo. Le sensazioni sono buone anche se mentre sei lì che risali lo zoccolo boscato, più volte ti chiedi il perché di quello che stai facendo e la risposta prontamente non arriva perché sei troppo impegnato a non ammazzarti sui terzi gradi vegeto-minerali. La via non perdona e i due tiri duri sono delle legne. Quando Cagia ci chiede di bloccarlo perché è in ghisa non ci crediamo, pare impossibile! Da secondo mi riesce la libera, con lo zainone, anche se arrivo in sosta totalmente finito. Sul secondo mi arrendo al tetto finale, troppo duro con lo zaino che mi risucchia verso il basso. Poi bivacchiamo in una nicchia dove il posto sarebbe per due persone e noi siamo in tre. Qui Cagia da il meglio di sé con il suo proverbiale pessimismo e così andiamo a dormire pensando a temporali, aerei perduti e chi più ne ha, più ne metta. La mattina seguente mi sveglio bene col primo tiro sul giallo e mi rincuora sapere che […]